L’odore del fieno

 

PATAGONIA E TERRA DEL FUOCO,
UNA SFIDA TRA AMICI,
L’INCONTRO CON GUSTAVO.
SULLO SFONDO PEVERAGNO E LA BISALTA…

testo e foto di Nanni Villani

 

 

«SCOMMETTIAMO che là sopra non c’è mai salito nessuno?».
La provocazione scherzosa di Renzo viene subito raccolta da Andrea: «Siccome il primo ad arrivare in punta sarò io, si chiamerà Cima Lessolo».
Sto al gioco, proclamando che quella sarà Cima Peveragno, e lo stesso fa il provocatore, il quale avendo origini banalmente torinesi, sceglie come nome di battesimo Manta, dal paese dove passa parte del suo molto tempo libero.

La neve ora scende fitta e rimestata dal vento indugia nell’aria prima di posarsi sul terreno. Intravediamo la cima, a forse trecento metri di distanza: sarebbe un peccato dover tornare indietro proprio adesso. Certo, quello che abbiamo di fronte non è il vertice di una grande montagna. Di cumuli di sassi del genere sono piene le nostre vallate, in Italia. Un solo particolare lo rende terribilmente attraente: e se davvero, prima di noi, nessun altro fosse stato lassù?
Siamo in uno degli angoli più sperduti della Patagonia. Un bagno di polvere di otto ore, lungo una sterrata di 300 chilometri, è l’inevitabile preliminare cui è necessario sottoporsi per raggiungere la zona del San Lorenzo dal più vicino centro abitato, Perito Moreno. A dieci ore di cavallo, al di là delle montagne, c’è il paesino cileno di Cochrane: nessuna carta stradale lo cita perché non esiste strada che porti da quelle parti; ci vive un padrecito, ci ha raccontato un gaucho, che viene come noi dall’ltalia.

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Il primo salitore del San Lorenzo, che con 3706 metri è la seconda cima per altezza delle Ande patagoniche australi, fu padre Alberto De Agostini, un salesiano novarese che nella sua lunga vita in terra di missione battezzò più cime che cristiani. Dopo di lui capitarono in zona giapponesi, sudafricani, argentini, americani, italiani: in tutto, non più di una quindicina di gruppi in oltre cinquant’anni.
Un famoso alpinista ha scritto che in Patagonia il vento è capace di sollevare una pecora, e un’intera giornata di bel tempo è un evento che nell’anno si ripete non più di una decina di volte. La solita propensione al nero di una certa mentalità alpinistica anni Cinquanta. Ci vorrebbe ben altro per farci scegliere una vetta diversa dal San Lorenzo.

I primi quattro giorni al campamento nella valle del Rio Lacteo li passiamo in tenda, perché fuori nevischia ininterrottamente e la zavorra dei nostri corpi è indispensabile per  trattenere i teli sul posto. Ci sono famosi alpinisti che portano iella, questo è sicuro.
Nella tarda mattinata del quinto giorno il vento spazza via le nuvole, facendo comparire la sagoma tozza dell’Hermoso e quella più slanciata dei Dos Picos.
Si parte.
Per toglierci di dosso un po’ di ruggine puntiamo verso una cima bonaria che si alza dall’altra parte della valle. Con me ci sono Andrea e Renzo, gli altri giurano che tempo un paio d’ore nevicherà di nuovo. Avevano ragione. Ora siamo qui, in mezzo alla tormenta, a trecento metri dalla punta, che ci marchiamo a vicenda prima dello scatto finale. Siamo come cavalli in corsa; a quale dei tre paesi sarà toccato l’abbinamento vincente? Tra Peveragno, Lessolo e Manta quale sarà a veder crescere la propria fama nel mondo?

 

Quando si gareggia tra cavalli bolsi, lo sprint finale è uno spettacolo penoso. Arranchiamo, cerchiamo di ostacolarci a vicenda, fin quando, a cinquanta metri dalla punta, ormai sfiniti vendiamo la corsa: perché non tagliare insieme il traguardo, scegliendo come nome di battesimo un affratellante “Punta Tres Amigos”?
Due amici si possono sentire complici e allo stesso tempo competitori? Andrea ha la mia stessa età, la stessa laurea, la stessa passione per la montagna. Ci conosciamo da una vita, abbiamo arrampicato e sciato tante volte insieme. Non ricordo screzi che ci abbiano anche solo momentaneamente allontanati. Eppure non abbiamo mai smesso di sfidarci vicendevolmente: esami, ragazze, sport, qualsiasi pretesto è sempre stato buono. Ho finito l’università prima di lui, so giocare molto meglio a calcio e pallacanestro, ma sul piano dei successi amorosi sono stato surclassato e la sua patacca da Accademico la dice lunga su chi tra i due è il più forte in montagna.
Ci sono sfide che sono durate lo spazio di un minuto, e altre che si trascinano senza fine. La più annosa, forse di tutte la più sofferta, ruota attorno ai rispettivi paesi di origine. Chi può andare più fiero dei propri antenati? Lessolo e Peveragno: verso quale dei due l’umanità è maggiormente debitrice? Qual è più famoso nel mondo?
Di volta in volta ho gettato sul piatto della bilancia il maggiore Toselli, Bersezio e il Monsù Travet, le fragole, il latinista di Portobello. Andrea mi ha risposto con i ponti e le miniere della Valchiusella, i Salassi, le vecchie case canavesane in pietra dai grandi porticati. La diatriba sembra non avere sbocchi, anche il possibile rialzo di quotazione nell’una o nell’altra direzione legato al battesimo della punta patagonica innominata è andato in fumo. Si prolunga così all’infinito l’attesa di un evento in grado di rompere l’equilibrio. L’avventura al San Lorenzo è finita. Ci resta ancora una settimana da passare in Argentina. Qualcuno decide di andare a vedere il Cerro Torre, c’è chi preferisce fare una puntata in Terra del Fuoco.

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«Tranquilli, il nostro pilota è un eroe della guerra delle Malvinas ». Le parole dell’hostess mentre l’aereo per­ de improvvisamente quota non ci rassicurano più di tanto. C’è un tempo infernale, e gli argentini, alle Malvinas, non si può dire che abbiano fatto una gran figura. Molti dei passeggeri che scendono all’aeroporto di Ushuaia hanno facce di cera. lo, Andrea e Anna compresi.

«Da dove venite con quei sacconi da spedizione? ». La domanda ci viene rivolta da un tipo con la faccia larga incorniciata da una folta barba, che parla castigliano con accento duro. Si presenta: il suo nome è Karl, è una guida alpina austriaca che da alcuni anni vive in Terra del Fuoco, di mestiere fa l’accompagnatore turistico.
«Se volete, vi porto in posti che nessun turista ha mai visto.» Ci diamo appuntamento per la sera. «Conoscerete anche il mio socio, Gustavo, che sa l’italiano », grida allontanandosi.

 

Deloqui 368. La sede dell’agenzia Caminante: “Escursiones no convencionales Turismo de Aventura” è la scritta sul cartello all’entrata.
«Karl ci ha detto che parli italiano », attacca subito Andrea. «Non è vero. So qualche parola e lo capisco abbastanza bene». Ci racconta che i suoi antenati arrivarono in Argentina dal Piemonte, che anni prima durante un viaggio in Europa aveva visitato per qualche giorno l’Italia. La nonna Caterina gli aveva spesso parlato del suo paese d’origine, era partito portando con sé l’indirizzo di lontani parenti. Non era stato né a Roma né a Venezia, ma solo in quel piccolo paese «cerca de Cuneo».
«Sarai stato a Peveragno…» Colgo una sottile ironia nel tono di voce di Andrea.
«Sì, a Peveragno. Lo conosci?»
L’ironia si trasforma in incredulità, una smorfia amara si disegna sul volto del mio amico. Non riesce a incassare il colpo, mi accusa di essere il segreto artefice di quella messinscena. Da parte mia sono sorpreso ed eccitato. La scoperta che Gustavo di cognome fa Giorgis dà consistenza a un dubbio che si è insinuato nella mia mente fin dalle prime battute.
«Torno subito», dico mentre mi infilo nella porta d’ingresso.
Una ventina di minuti più tardi sono di ritorno. Stringo nella mano un biglietto di carta che porgo a Gustavo. Tocca a lui stupirsi di quanto sta accadendo: «Sì, questa è proprio la mia calligrafia».

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Torniamo indietro di cinque anni.
Nell’estate del 1982 si presentò all’entrata di Peveragno un tipo in jeans e camicia a scacchi che in uno spagnolo italianizzato andava cercando notizie della famiglia Villani.
Seguendo le indicazioni di un indirizzo vecchio di decenni era stato in via Roma. La casa c’era, con tanto di iniziali forgiate nel ferro battuto della ringhiera del balcone, ma nessuno gli aveva risposto. Un vecchio incontrato sulla piazza del Municipio gli aveva detto di andare in fondo al paese, alla “Madunina”. Qui trovò mio padre. Gli raccontò di una sua nonna, imparentata con la nostra famiglia, che aveva lasciato Peveragno per emigrare in Argentina. Citò altri cognomi che la memoria aveva fissato, Giubergia, Peano, ricomponendo pezzo dopo pezzo un insospettato mosaico familiare.
La sua visita si esaurì in un solo pomeriggio, e dopo essersi fatto accompagnare al cimitero per vedere la tomba dei suoi avi, ripartì così come ero venuto, a piedi. Non ci fu modo di convincerlo ad accettare un passaggio in auto fino alla stazione di Cuneo. Spiegò che per lui il modo migliore per conoscere un posto è camminare lungo le sue strade: si può rimirare con calma il paesaggio, osservare la gente al lavoro, parlare con chi si incontra, farsi prendere dalle luci e dagli odori.
In quei giorni ero in vacanza, e non conobbi il “cugino americano”. Alla partenza per la Patagonia, molto tempo dopo, mi fu affidato un biglietto con il suo indirizzo. Evitai di rimarcare il fatto che l’Argentina è enorme: su quel pezzo di carta, a grandi lettere in stampatello, si leggeva Cordoba, e io andavo giusto duemila chilometri più a sud di quella città.
Il biglietto, che per un mese ha viaggiato stropicciato al fondo del mio portafoglio, è ora nelle mani di Gustavo. Sono sue, quelle grandi lettere a stampatello. Dice che al ritorno in Argentina dovette abbandonare Cordoba e si trasferì a Ushuaia. La città più australe del mondo è un avamposto della civiltà che ogni giorno accoglie uomini dalla storia travagliata. Gustavo non ha voglia di ricordare la sua.

Parliamo dell’Italia, e questo discorrere di San Giorgio e della Bisalta in uno degli angoli più remoti del globo, questo imbattersi in sangue peveragnese nella terra “scoperta” da Magellano, chiude infine – anche Andrea lo percepisce – una sfida che si è protratta per anni. Mi racconta di un giro in moto con mio fratello, della sua passeggiata estiva da Cuneo a Peveragno.
«Una cosa non dimenticherò mai: l’odore intenso del fieno, portato dal vento».

 

Da Alpidoc 1, marzo 1992

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